La città stanotte è un calderone di razze miste.
Mentre sto seduto sul cornicione di questo palazzo e osservo il mondo aprirsi sotto ai miei piedi come un fiore di Stramonio, penso che se le persone sapessero cosa cammina in mezzo a loro, qui si scatenerebbe il panico. Ed è per questo che a volte avrei voglia di camminare per strada, mostrare il palmo della mano e far saltare teste con la magia. Giusto per vedere l’effetto che fa. Giusto per sentire la gente che grida, la gente che impazzisce, la gente che scappa senza sapere il perché. Sarebbe divertente e sarebbe gratuito, esattamente i due motivi per cui farei una cosa del genere. Ma Tears non vuole e quindi, per certi versi, non voglio nemmeno io. Mi viene da ridere, perché è sempre stato così: mia madre era bella e io l’adoravo, ma questa è l’unica cosa che mi ricordo di lei, non so se c’è mai stato un tempo in cui mi abbia mai detto che c’erano cose che non andavano fatte. Quello, da che ho memoria, è sempre stato il compito di Tears; quindi, se non facevo qualcosa che non dovevo, era perché Tears non l’avrebbe fatto, non perché mamma si sarebbe arrabbiata. Quando ho cominciato ad avere una certa consapevolezza del giusto e dello sbagliato – e quando ho imparato anche a fregarmene – mia madre non c’era ormai da anni.
Tears, Tears, Tears… l’unico filo che non riesco e non voglio tagliare. Se sono un burattino, però, lo sono solo per lui e per nessun altro.
Ai miei piedi, quasi quaranta metri sotto di me, cammina una donna meravigliosa. Ho visto il suo volto sulla scheda che il comando centrale ci ha mandato ed era così bella e piena di vita che l’ho voluta io.
Tears era contrario perché dice che ci metterò una vita – e puoi contarci, fratellone, che ce la metterò – ma non importa perché non abbiamo una scadenza. Per quanto ne sappiamo, questa bellezza non ha fatto il salto oggi, era qui già da tempo, si è ambientata, e se è venuta allo scoperto è perché c’è qualcosa di grosso sotto. Così posso prendermela comoda, seguirla, studiarla e poi decidere in che modo posso chiudere il lavoro nel minor tempo possibile ma con il massimo del divertimento.
Quando la richiesta di cattura è arrivata, Tears stava guardando uno dei suoi soliti programmi in televisione e nel sentire la stampante che vomitava il rapporto completo del generale Nakiri, non si è nemmeno disturbato a voltarsi. Ha detto solo: “Sin, pensaci tu.”
Il Generale Nakiri è uno che ti spiega solo quello che lui ritiene necessario, non quello che potrebbe effettivamente esserlo. D’altronde il necessario è un concetto soggettivo: per lui ho bisogno di sapere quanto è alta e da quanto si suppone sia in questo mondo, in modo da individuarla subito tra la folla e capire che tipo di persona sia – perché chi è qui da tempo, pensa in un certo modo, chi è appena arrivato pensa cose totalmente diverse –, ma a me quello che interessa è come profuma, che cosa pensa, che sapore ha. Sono due modi diversi di vedere la caccia.
Sono certo che Tears mi abbia scrutato, mentre io scrutavo il viso della donna sul foglio stampato, come fa sempre, senza farsi vedere. Voleva capire quanto fossi preso – lui le intuisce a naso queste cose – e se dovesse seguirmi o no, il che è buffo perché mi segue comunque. Cambia solo la distanza dalla quale mi pedina. E’ eccitante. pensare di cacciare qualcuno sotto gli occhi di mio fratello.
Ad ogni modo lei è umana – come me – ma donne così, ho i brividi solo se ci penso, da queste parti non ce ne sono. Quindi devo aspettare che passino il confine per averne una.
Si muove svelta lungo i vicoli bui, non ha paura di niente, quindi sa difendersi. Quando sei donna e la luna si è alzata da tempo, non ti aggiri con quella noncuranza se non sei capace di uccidere. E questo è interessante. Sulla sua scheda ho letto che ha ammazzato cinque funzionari governativi nella seconda dimensione, tre tagli alla giugulare, due alla femorale. Un casino di sangue e la morte che sopraggiunge nel giro di qualche minuto. E’ una donna favolosa, forse sono innamorato. Rido.
E’ scesa da una lancia Y nera, parcheggiata al millimetro appena fuori dal centro. Di lei mi dice che è elegante e che è precisa; e che è abbastanza furba da non farsi notare con cazzate come una multa per divieto di sosta. Dieci punti per te, bella signorina.
D’altronde doveva esserci un motivo se la Confederazione non era riuscita a trovarla in cinque anni: è una che ci sa fare. E io non lo metto in dubbio, voglio solo capire su quanti livelli.
La seguo lungo la piazza principale, dove c’è ancora abbastanza gente e abbastanza luce perché la sua o la mia presenza passino assolutamente inosservate. Non mi ha visto. Trecento metri dietro di me sento il motore della Seat Leon di mio fratello. Già lo vedo che bestemmia perché sarà costretto a parcheggiare se vuole seguirci, e siccome è testardo lo farà. Mi prendo il tempo di visitare il giardino zen che è stato costruito proprio al centro della piazza, mentre tengo d’occhio lei che a passi veloci attraversa davanti alla chiesa. Ha calze nere con la riga lungo il polpaccio e i piedi infilati in due scarpe lucide col tacco che vorrò vederle addosso anche quando le avrò tolto tutto il resto.
C’infiliamo in una delle stradine laterali e non so dove stiamo andando. Sento musica in lontananza, quindi forse si tratta di un locale. E’ sempre un locale, d’altronde.
In questo caso si tratta di un buco, incastrato tra due case, senza insegna. Non c’è nessuno fuori, niente selezione all’ingresso, quindi sarà così lurido che quasi potrei impazzire di gioia. Era un po’ che non mi organizzavo una serata così. La porta del locale è spalancata, ma c’è una tenda nera a coprirne l’entrata. “Che cosa nascondi?” Chiedo divertito. Le tende nere celano soltanto cose illegali, quindi qualunque cosa sia, ci divertiremo un sacco.
Aldilà del tessuto che è pesante e ruvido tra le mie dita, la prima cosa che vedo è il bordeaux delle luci sui tavoli rotondi. Sul palco a croce di fronte a me ci sono due pali d’acciaio. Un locale a luci rosse. Sorpresa, sorpresa. Mi guardo intorno, non c’è molta gente. Qualche vecchio sui divanetti si trastulla con carne troppo giovane perché possa anche solo sperare di reggerne il ritmo e c’è un barista svogliato e pigro che pulisce bicchieri aldilà di un bancone molto pacchiano, decorato da luci al neon. Se non avesse quel taglio di capelli e io non avessi altro da fare al momento, forse ci penserei. Ho un debole per i baristi: chi sa farti da bere dopo che hai scopato è sempre utile.
La mia signorina è sparita ma non mi preoccupo, perché se è entrata qua dentro evidentemente non lo ha fatto per uscire subito dal retro. Ha qualcosa da fare, e se sono abbastanza fortunato, prima di farla salirà sul palco. E io non vedo l’ora. Nakiri l’ha definita “un’intrattenitrice di bassa lega”, al che ne deduco che sia una ballerina. O meglio ancora, una puttana. E’ un lavoro che ti dà un sacco di libertà se tra una cosa e un’altra devi anche uccidere gente.
Mentre mi siedo al tavolo e chiedo qualcosa da bere ad una cameriera nuda ma con due tette dimenticabili, vedo entrare qualcuno con la coda dell’occhio e, dietro mio fratello – del quale riconosco profumo e camminata anche da qui – c’è un uomo grasso e volgare, in completo elegante che prende posto nel tavolino vicino al mio e, al primo bicchiere che gli portano senza che lo abbia ordinato, lo alza nella mia direzione con il cameratismo tipico di chi è già parecchio ubriaco o di quelli che frequentano un certo tipo di posti. Probabilmente, nel suo caso, si tratta di entrambe le situazioni. Io sorrido, alzando il mio Mojito e penso che forse siamo qui per la stessa donna, ma non abbiamo gli stessi scopi. Aspetta no, li abbiamo. Chiedo alla cameriera nuda con le brutte tette di offrirgli il secondo giro a nome mio.
Un attimo dopo, giusto il tempo di un sorso di menta e di rum bianco che mi brucia la gola in maniera piacevole – dieci punti anche al barista, peccato per quei capelli – ecco che le luci si abbassano lasciando ai neon intorno al palco il compito di illuminare la sala. La luce sul corpo snello della mia preda è calda e quasi infernale, mi piace come le ombre le scorrono addosso mentre si avvicina. Il mio amico, al tavolo accanto, si agita come un bambino il giorno di Natale e non so dargli torto, lei è bellissima.
Indossa una vestaglietta dai ricami cinesi e quel tacco dodici che mi fa venire strane idee. Ha gambe lunghissime che si perdono sotto la seta svolazzante e io comincio a cambiare i miei piani. Sono un disastro in queste cose, non riesco mai ad attenermi ad un semplice: vai, guarda, prendi e finisci. E’ per questo che poi Tears deve venire a recuperarmi.
Lei è mora, i capelli lunghi, gli occhi chiari e le labbra piene. Praticamente tutto ciò che vale la pena trovare in unica donna. Il mio amico va in fibrillazione quando lei toglie la vestaglia e io non riesco a staccare gli occhi dalla seta che le scivola lungo le braccia e i fianchi, penso alla morbidezza della sua pelle sotto le dita, penso che una donna così deve sapere di forte. Non vedo l’ora…
Sotto ha una gonna di pizzo rosso sangue, soltanto qualche centimetro di stoffa arricciata intorno alle cosce e qualche laccio che le pende sulle ginocchia, come ad indicare la strada. E’ avvolta in un bustino così stretto che il seno le sboccia da sopra come un bouquet. La sua pelle è bianca come il latte, di quel pallore che ti viene voglia di affondarci le dita, le labbra. I denti.
Lei è qui per un motivo e quel motivo è l’uomo che siede a qualche passo da me. Lo capisco quando il primo giro intorno al palo lo fa col viso rivolto verso di lui, ma gli occhi dell’uomo e i miei sono incollati al palo che le scivola tra le gambe, che le sta incollato alla pancia e contro il quale il suo seno si schiaccia morbidamente. Il mio amico è un uomo d’affari in libera uscita, immagino; come tutti gli uomini d’affari sposati, ogni sera, dopo il lavoro. La moglie non è più abbastanza – o non lo è mai stata – mentre una come lei è capace di essere anche troppo.
Mi faccio portare di nuovo da bere. Sarà una serata molto lunga. Osservo il suo corpo piegarsi a ritmo di musica e a quello del mio cuore che ha accelerato i battiti. Mi perdo nella mia testa quando lei si toglie quella gonna, nell’adagiarsi morbido delle trine io vedo, penso e sento quello che farò. Non vedo che sprazzi del suo corpo semi-nudo sul palco. Vedo un po’ della vera lei e un po’ di quella che c’è nella mia testa.
La ballerina si siede sul palco, le gambe large di fronte all’uomo al suo terzo bicchiere – il mio l’ha buttato giù tutto d’un fiato quand’è caduta la vestaglia, pover’uomo – si getta all’indietro, offre la linea dritta della vita e quel seno, la pelle del collo. E’ ancora vestita, mi piace che lo sia, una volta nuda non c’è più niente da guardare. Non sono i capezzoli, non è l’ombelico, non è il suo corpo nudo ad eccitarmi ma la strada che percorre per mostrarmelo.
Scivola a terra e sale sul divano, su di lui, quell’uomo è così perso che potrebbe fargli di tutto. Io compatisco questa sua assenza di auto-controllo. E’ come se fosse già morto, penso, e poi vedo il coltello. Lui invece no, peccato. Scrollo le spalle, perché immagino sia un buon modo per andarsene.
Lei gli cala sopra come un serpente, è sinuosa, si avvolge, il suo bacino struscia contro il suo in maniera calcolata. La lama la fa scivolare fuori dal guanto di pizzo che le copre una mano – è meravigliosa! – ma non è la giugulare, stavolta, e nemmeno la femorale. Troppo sangue. Apprezzo chi sa riconoscere quando non è il caso di fare qualcosa solo perché lo si è sempre fatto così. Ci sono tempi e modi per uccidere la gente, l’eleganza dev’essere pratica o diventa solo cattivo gusto. Ho visto gente sgozzare vittime in mezzo di strada e ridere del proprio operato, come se lo scorrere del sangue in un tombino fosse un bel vedere .
Il gemito sorpreso dell’uomo lei lo soffoca con un bacio, così lui la guarda con gli occhi sgranati senza vedere, la bacia senza rendersene conto. E muore senza un fiato. Vorrei alzarmi ed applaudire. Non ha mai smesso di ballare. La voglio.
Tiene il viso di lui tra le mani ancora a lungo, come se lui non fosse morto ma in estasi e poi lo appoggia al divanetto. Nessuno se ne accorge, tranne me. Ma d’altronde non ci sono molte altre persone e io sono io. Faccio la stessa cosa quasi ogni giorno, non poteva ingannarmi. Lei viene a poggiare le sue grazie anche sul mio tavolo, osservo con interesse la linea morbida del suo corpo, ma non mi tocca e io non voglio toccarla ora. Sparisce sull’ultima nota e io mi prendo il tempo di un altro sorso prima di seguirla nel retro e portarmi dietro il bicchiere.
Mi alzo dal tavolo e lascio una mancia, attraverso la sala in silenzio e passo davanti a mio fratello che è seduto in un angolo all’ombra, e di lui si vedono solo gli occhi e il brillio di una sigaretta che non potrebbe fumare. “Hai mezz’ora,” mormora, mentre mi passa il taser che ho dimenticato a casa per dargli una scusa per seguirmi.
“Non ci contare.”
“Sin…” lo sento mormorare esasperato, mentre me lo lascio alle spalle.
L’uomo della sicurezza che blocca il passaggio ai camerini è un bel ragazzo di colore che fa in tempo a dirmi che l’accesso è vietato prima di cadere a terra. E’ così gentile da farlo all’indietro, così mi basta spostarlo perché nessuno lo noti per il tempo che mi serve.
Il corridoio sul retro è uno schifo totale. I muri non sono ridipinti e metà delle luci funziona male, così sembra di stare in un cesso pubblico. Lungo la strada ci sono tre porte di legno con sopra adesivi e incisioni di ogni genere, come se fossero riciclate da qualche altro posto. Lei sta per entrare nell’ultima quando la raggiungo. Sembra di corsa – non dubito che lo sia, visto che in sala c’è un uomo morto per mano sua – e afferra la maniglia con la fretta di andarsene. Quando mi vede, però, si rimette in faccia il sorriso suadente che aveva nemmeno qualche minuto prima. Mi ha riconosciuto, forse, non so, è probabile che avrebbe riservato lo stesso sorriso a qualsiasi persona si fosse presentata qui mentre cercava di fuggire.
“Non si può stare qui, lo sai?” Mi dice con un tono a metà tra l’intenerito e il seduttivo. Quello accattivante che sono tenute ad usare con i clienti, come a dire: so che vorresti stare qui, tesoro, ma purtroppo non si può. “Alex non sarà contento se scopre che sei qui.”
“Alex è un vecchio amico,” sorrido, ipotizzando che quello di cui stiamo parlando sia l’armadio a due ante che al momento è steso nel sottoscala. “Non ha avuto problemi a farmi passare, se promettevo di tenere la bocca chiusa. Posso offrirti da bere?”
Lei guarda il bicchiere che le porgo e nei suoi occhi non scorgo nessun tipo di sospetto. Non devo essere il primo – ne sarei l’ultimo, nel caso la situazione non fosse quella che è – a farle delle avances dopo lo spettacolo. Mi chiedo se cambi locale ogni volta che deve uccidere qualcuno, o se cambi lavoro. Se ha fatto la ballerina qui per qualche settimana, prima di decidere che oggi era il momento buono. Mi piacerebbe farle tutte queste domande, ma non ne avrò il tempo.
“Grazie,” accetta il bicchiere e beve un sorso di Mojito senza mai staccarmi gli occhi di dosso.
“Come ti chiami?” Lo chiedo anche se lo so già, mi piacerebbe sentirglielo dire.
“Andromeda,” risponde. Oh, no, non è affatto così, signorina.
Scollo le labbra perché detto da lei è un nome fatto d’acqua. Le rotola sulla lingua, quasi le imperla le labbra e mi costringe a fissarle. “Lo hai scelto tu, questo nome di scena?”
“Non so cosa vuoi dire,” ammette. “Questo è il mio nome.”
Sospiro e decido di giocare ancora un altro po’.
“Andromeda,” ripeto. “E’ un bellissimo nome. Sai che Andromeda fu legata ad uno spuntone di roccia, perché un gigantesco mostro marino se la mangiasse e placasse così le ire delle Nereidi?”
“Davvero?” Mi sorride oltre il bordo del bicchiere, mentre io mi faccio più vicino. Non ha idea di quello che ho appena detto perché non penso le capiti spesso di incontrare uomini che abbiano anche solo una vaga idea di cosa sia la mitologia di questo mondo. Né mi aspetto che ce l’abbia lei. So che è qui da più di sei anni, ma dubito che ci sia qualche profugo oltre a me ad interessarsi di queste cose. “Sì,” le mormoro quasi sulle labbra.
“E perché?” fa lei. Non sembra voler fuggire più e non mi sorprende. Sarebbe la prima che non mi cade ai piedi.
“Perché era troppo bella,” quando la bacio lei non si trattiene, le sue labbra sulle mie sono morbide ma forti, non si piega, non si sottomette. E sa di liquore, esattamente come mi aspettavo.
L’attimo dopo la tiro su di peso contro la porta e lei mi si avvinghia addosso esattamente come mi serve. Indossa ancora il bustino, ma non la gonna, così le sue lunghe gambe sono libere di stringermi i fianchi.
“Non mi capita spesso di permettere agli uomini cose simili,” mi ansima in bocca. Come se ci credessi, come se fosse plausibile.
“Io non sono come gli altri.”
“No,” fa lei. E il suo ansimare le agita i seni, dai quale non posso distogliere lo sguardo perché sono il mio feticismo – uno dei tanti – e sono bianchi e pallidi, costretti da questo bustino, che è un capolavoro quanto lei. Ho un feticismo anche per i bustini e per i nastri, naturalmente. Così questa donna diventa in un istante tutto ciò che voglio al momento.
Il bustino è di raso, nero e lucido, arabescato. Le stecche di legno le disegnano un vitino di vespa che sento stringersi appena sotto le mie mani, per poi aprirsi un po’ lungo i suoi fianchi e disegnare la linea della sua vita con una trina finissima che sembra una ragnatela.
Ringhio e apro la porta con uno spintone. Dietro speravo di trovare un divano, una sedia, o qualcosa di anche solo vagamente simile ma non c’è niente, solo un mobile con una specchiera. Così l’appoggiò lì, mentre le mordo il collo così forte, così crudele, da fare uscire il sangue. Sento le sue dita che si stringono sorprese e doloranti intorno ai miei bicipiti, ma nel mio succhiare lei non si muove e non so se sia spaventata o affascinata, o un po’ di entrambe le cose.
Mi scosto per osservare il rivolo di sangue che scivola lungo il suo collo e nell’incavo trai senti, che sparisce sotto la trina del bustino per il mio sguardo affascinato e il suo confuso, da me e da quello che sto facendo, immagino.
“Non sei normale,” mormora con una mezza risata, senza lasciarmi andare o scostarsi. Senza vera voglia di andarsene.
“Temo di no,” sorrido e mi avvento su di lei ancora una volta, mentre lei mi toglie la camicia di fretta. Me la sento scivolare dalle spalle mentre le mie mani trovano la strada sotto il bustino, tra le sue gambe e dentro di lei. Mi si muove addosso e io mi godo il momento, quello che precede la rivelazione. E un po’ come l’attimo prima di aprire la porta ai tuoi ospiti quando hai passato l’intera giornata a preparare la casa per loro.
“Chi ha scelto il tuo nome d’arte?” Chiedo ancora. Scorro una mano lungo i suoi fianchi ancora completamente vestiti, mentre con l’altra le accarezzo una gamba, fino alla caviglia.
“Questo…” ansima lei, reclinando la testa. Il sangue ha lasciato una scia serpeggiante sulla sua pelle, non è ancora abbastanza però. “… è il mio vero nome.”
“No che non lo è, Darmoriél.”
Lei si congela sul posto, smette perfino di muoversi anche se io non lo faccio; ed è allora che i suoi occhi cambiano, diventano un po’ più scuri, un po’ più dubbiosi e – anche se ammetto che è deludente – un po’ più spaventati. Se conosco il suo vero nome, allora non posso che venire dalla seconda dimensione.
“Come fai a sapere il mio nome?” Mormora e socchiude gli occhi quando le lecco il sangue a ritroso, dall’incavo fra i seni fino al morso che le ho dato.
Lei riprende da dove avevamo interrotto, perché è ormai convinta di non poter scappare e, soprattutto, che io l’arresterò.
“So un sacco di cose,” le dico in un grugnito.
“Chi diavolo sei?” Mi pianta le unghie nella schiena e io me la tiro contro con più forza. Sto sanguinando anch’io. Alla fine di questa storia ci sarà così tanto sangue intorno che potranno ridipingerci i muri. Ridacchio da solo perché so che Tears, se mi sentisse, direbbe che sono il solito esagerato. E mi direbbe anche che faccio schifo, ma poi mi darebbe una mano a lavarmi i capelli, come ha fatto la prima volta che sono tornato a casa praticamente in estasi.
“Sin Eirdar,” mi esce fuori strozzato, un attimo prima di sollevarla, un attimo prima di spingermi a fondo. Quando i miei occhi incontrano i suoi, lei non è del tutto presente.
“Ho sentito il tuo nome,” mi geme addosso, il suo fiato caldo non mi distrae da quello che sto facendo. “Ma pensavo lavorassi in coppia.”
Le sorrido e le prendo la mano con un gesto gentile. Lei si lascia maneggiare senza opporre resistenza, è deliziosamente nelle mie mani, senza sapere quanto. “Ci sono cose che un uomo deve fare da solo, non trovi?” La guardo negli occhi. “E comunque mio fratello non è lontano.”
“Quindi adesso mi arresterai?” E mi sorride. Dio, mi sorride. Lo adoro quando succede. I suoi lunghi capelli neri sono tutti spettinati, ma lei è fiera e bellissima. E viva. Crede che l’arresterò, davvero.
“No,” ringhio e mi sciolgo dentro di lei.
L’attimo dopo Andromeda si gorgoglia addosso sangue perché io l’ho sgozzata. Con la sua stessa lama.
Oh, ironia della sorte, non è vero, Darmoriél?
La prendo in braccio e lei mi reclina la testa su una spalla. Trema tantissimo e ha la gola di un rosso acceso e luminoso che poi si scurisce fin quasi a diventare nero quando le scende sul corpo e impregna la stoffa, le cola sulle trine fino alle gambe dove rimane, scuro, come se dalla stoffa avesse tirato via il colore.
L’adagio a terra e mi incanto a guardare il suo corpo negli ultimi tremiti. I disegni, i colori, le curve che cambiano direzione ogni volta che lei per sbaglio si muove. “Le… manette,” mormora.
Ah, già! Secondo il regolamento dovremmo prima mettere le manette e, se questo non è possibile, inseguire, ferire e poi – nel caso – uccidere. Ma è una perdita di tempo, nessuno vuole farsi catturare. “Hai ragione,” le dico, accarezzandole i capelli. Lei tossisce, si scuote dal pavimento e poi ricade. “Diremo che sei fuggita e non ho avuto altra scelta.”
Estraggo le manette dalla tasca dei pantaloni e mentre le chiudo e la pozza di sangue sotto di lei si allarga, Tears entra nella stanza tirando una bestemmia molto colorita.
“Ciao Tears,” commento, controllando che sia tutto a posto. Le sposto di nuovo i capelli, gli occhi sono ormai vitrei. E’ solo fredda e rossa e nera.
“Che diavolo hai combinato?” Fa lui e mi tira su per una spalla. Gli basta una mano sola.
“Voleva scappare,” mi giustifico.
Tears osserva la stanza velocemente, quindi afferra la tenda di raso che pende sbilenca da una finestra e la strappa via, coprendo il cadavere. Io lo vedo sparire un centimetro dopo l’altro sotto la stoffa che cade sopra dall’alto, come pioggia. Prima c’era una donna morta, ora non c’è più. Tears è come un mago sul palcoscenico. E penso che lo faceva anche da piccolo. Dov’è la moneta, Sin? Nella sinistra o nella destra? E non importava quale mano scegliessi, perché la moneta d’oro che ci aveva regalato papà era sempre dietro al mio orecchio. Sempre, sempre.
“Voleva scappare il cazzo,” sta intanto borbottando lui, ma lo sento lontano, come se non fosse qui. O io non fossi qui, non so bene. Seguo l’unica cosa che Tears non è riuscito a far sparire: il sangue che scivola da sotto il telo e crea una pozza a pochi centimetri dai suoi anfibi. La magia non è riuscita tanto bene. “Non potevi tenerlo nei pantaloni per una volta? Guarda che casino!”
“Era bellissima, Tears.”
Lui non risponde, chiama Nakiri.
“C’è un casino di sangue, elfo,” gli dice.
Non come l’altra volta, penso. Non come quando ero al centro commerciale.
“Cazzo ne so. Sì, il solito,” protesta e poi bestemmia. “No, manda qualcun altro. Qualcuno che stia zitto.”
Qualcuno che non parli, ossia qualcuno al comando diretto di Nakiri. Verranno, puliranno e Darmoriél avrà tentato di fuggire, naturalmente. Questa sarà la versione ufficiale.
D’altronde ho dovuto sgozzarla, non c’era altro modo.
Penso al sangue rosso come il vino sulla sua pelle bianca, al suo calore sotto al corpetto e al suo corpo contro il mio. Spero che la sotterrino così com’è, perché il corpetto le donava.
“Sin, vieni qui, siediti.” Mi siedo. “Dammi le mani.” Gli mostro le dita sporche di sangue.
“Sarebbe piaciuta anche a te,” gli spiego. “Era fiera e selvaggia.”
So che Tears finge di ignorarmi ma ascolta sempre tutto ciò che gli dico. “Sei un disastro,” commenta, la sigaretta che gli pende storta dalle labbra.
Sono un disastro perché ci sei tu a rimettermi insieme, ma questo non lo dico.
E’ un segreto.
Ma che meraviglia *.*
A dire il vero non so cosa commentare, solo che adoro come viene caratterizzato Sin in queste fanfic. Entrare un po’ nella sua testa è un’esperienza, davvero. E… E… E…
E è una meraviglia. *spuccia Tabata all’infinito*
(chiedo scusa per il commento striminzito ma in questi giorni sono a corto di parole ^^; )
Bello
Veramente bello. Le descrizioni sono dettagliate, ma non troppe da stancare. Tutti i giri mentali di Sin sono proprio da mente malata. E Tears che lo segue ovunque per tenerlo d’occhio è quasi tenero. Complimenti.
Boia!
Orcazza, ero convinto di averlo commentato appena l’avevo letto 🙁
Tab, chiedo venia e rimango a disposizione per eventuali sanzioni, quali fucilazione, faccende domestiche, iniezione letale, distuzione delle mie action figures e manga… no aspetta, cancella gli ultimi: preferisco morire XD
Comunque sia, vediamo di mettere qualche pezza alla mia mancanza u.u
La scena iniziale è identica a quando io gioco a GTA: mi piazzo da qualche parte e sparo sulla folla per vederli scappare urlando. Magari poi gli sparo pure sui piedi per farli ribaltare, tanto per vedere come cadono. La differenza è che Sin non spende soldi in munizioni ^^.
Disturbato. Sin è decisamente disturbato. Sadismo allo stato puro. Non gli basta portare a termine il compito, lui vuole di più. Cristo com’è ingarbugliato ‘sto ragazzo o.o
Tears che lo segue poi è stupendo, come anche la sbadataggine volontaria di Sin… Sicuramente, quest’ultimo, in queste fanfic si nota che non ha mezze misure. L’affetto infinito verso il fratello che sfocia in devozione, il modo di ragionare che supera di gran lunga i limiti umani (perlomeno in normalità XD),l’inseguire il suo gusto nel far sgorgare sangue… un personaggio che, palesemente, non ha sviluppato un Superego… almeno sembra così, poi non so XD
Mi garba, ovviamente aspetto di leggerne altre 😀
Complimenti ^^
Oh….
Di ritorno da questi mesi di assenza non avevo notato la presenza di una nuova fan fiction…
I miei complimenti vivissimi, Tabata, questa storia è stupenda, il modo in cui caratterizzi Sin è intrigante, e onestamente parlando, anche molto eccitante…
Sì, ho trovato questa storia eccitante (sarà che vivere le situazioni attraverso il punto di vista di Sin le fa apparire tali).
I miei più sinceri complimenti!!!