Strada statale 33 del Sempione, sono più o meno le tre di notte e la velocità di crociera è regolare. Sono diretto al prossimo scarico: Gallarate.
La pioggia batte sulla carrozzeria e sui vetri in modo assordante.
E’ appena iniziata la primavera e le sere sono già calde. La musica non riesce a sovrastare del tutto il rumore della pioggia, o forse è grandine?
Uno schianto, trasalgo e sbando.
Quello che mi è stato lanciato addosso ad una velocità surreale è un essere umano. Sono certo sin da subito di non averlo investito io, ma questo non ha alcuna importanza: il vetro s’incrina lo stesso e l’occhio vitreo su quel volto sconosciuto che mi si è schiantato sul parabrezza, mi fissa comunque in una muta richiesta di aiuto.
In quel momento capisco.
Getto letteralmente il camion sulla prima piazzola di sosta che vedo e mi butto sulla portiera spalancandola quasi senza aprirla con la maniglia. La pioggia mi tempesta immediatamente, inondando vestiti e capelli e lui è li, nel buio, da qualche parte. Isterico, mi guardo intorno. Un paio di macchine mi sfrecciano di fianco mentre mi giro a destra e sinistra e lui è li, lo so, è solo una questione di dove.
Dove.
La sua figura longilinea, così lontana dalla mia eppure così identica, una macchia nera nell’oscurità della notte. Non lo vedo, ma lo sento sulla pelle. Il suo sorriso e poi un soffio all’orecchio.
-Mi hai aspettato?-
Mi volto di scatto ma lui non c’è. E non c’è più: la sua presenza è svanita.
Rimango sotto la pioggia battente, con le macchine sulla statale che mi sfrecciano di fianco e il sangue di quell’uomo che scivola sulla carrozzeria del mio Renault, mischiandosi con l’acqua piovana e gocciolando sull’asfalto.
Stringo i pugni ed urlo.
“-ears. TEARS!!” Un pugno, dato da lei sì che fa male.
Bestemmio un po’, poi mi accorgo che non l’ha fatto per farmi incazzare. “Che c’è?”
“Per la miseria, ti ho chiamato dieci volte. Che fai, ti addormenti ai fornelli? Muoviti con quel vitello, il cliente che l’ha ordinato sta cominciando a rompere le palle.”
“Si fotta,” le rispondo, ma non a voce troppo alta. Non perché a lei non piacciano le persone scurrili, alle volte tira fuori cose che a me non verrebbero nemmeno in mente. Ma un altro pugno così a gratis non me lo voglio certo prendere. “Toh, è pronto. Potaglielo, e che ci si strozzi.”
Mentre lei se ne va io mi metto a preparare il prossimo piatto. A guardarmi forse non si direbbe, ma mi piace cucinare. Sono bravo. Quando ero più giovane, e un lavoro vero e proprio non l’avevo (il massimo era aiutare ogni tanto Bas e Cal nel loro), lo facevo come hobby. Poi, come succede a molti, ho trasformato il mio hobby nel mio lavoro. Lo prendo molto seriamente, e di solito non mi distraggo in questo modo. Ma quel sogno…
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La porta della cucina si apre con un tonfo. Anzi, a dire il vero quasi viene divelta da quell’esserino che dovrebbe, in teoria, essere Mesis, che bercia: “Tears, perlaputtana! Si può sapere che ti imbamboli a fare? I clienti hanno fame. E rompono!”
Davvero, oggi non sono in me. Maledetto sogno. Ma mi riprendo. “Che fai, Mesis, adesso ti chiami da sola?” ghigno.
“Fai poco lo spiritoso. Dovresti solo ringraziarmi, che sono venuta qui a darti una mano. E magari sceglierti un cameriere che non cerchi di mettere le mani addosso ad una delle mie ragazze.”
“Seh, seh. Intanto ti metto la porta in conto.” Ecco che fine ha fatto, l’imbecille. Mi pareva strano che stamattina non si fosse presentato. Pace, me ne dovrò cercare un altro.
“Con tutti i soldi che mi devi, puoi al massimo sperare che sia io a diminuire il tuo, di conto.”
Cazzo, ha ragione. Se solo non fosse così brava a poker. Ah, però se li sa guadagnare, quei soldi. Pensando a ciò a cui di solito portano le nostre partite, quasi quasi mi viene da proporgliene una per stasera, quando mi accorgo di stare bruciando anche l’agnello.
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I clienti del locale sono rumorosi, fastidiosi e in alcuni casi anche maleducati. Non che io non sia abituata ai clienti maleducati, ma quando vengono da me almeno posso gestirli come mi pare. Qui invece non posso fare loro praticamente niente. Poi chi lo sentirebbe quell’orso di là?
Il problema è che, almeno per un po’, anche io è meglio che eviti di usare i miei soliti metodi con i clienti maleducati e maneschi che vengono a trovare le mie ragazze. Dopo che a Eson mi hanno quasi beccata e sono stata costretta a spostarmi qui a Sevhyal per evitare di essere arrestata e spedita chissà dove, è meglio che tenga il profilo basso. Ho fatto un’eccezione con il cameriere di Tears l’altra sera perché si era comportato particolarmente male e perché so che Tears non mi darebbe in mano ai soldati, ma è meglio stare attenta con gli altri. Anche perché sarebbe proprio una scocciatura dover spostare di nuovo daccapo baracca e burattini, ragazze comprese.
Vedo un’ombra passare davanti alle finestre del locale, e provo una sensazione conosciuta. Dev’essere Sin. Quel ragazzo mi dà i brividi. Non che ne abbia paura, ma ha qualcosa nello sguardo che mi inquieta, come se fosse una bomba pronta ad esplodere, e bastasse anche la più piccola scintilla a farla saltare. L’unica volta che l’ho detto a Tears mi ha risposto di non fare la scema, anche se poi l’ho visto il suo sguardo. Io comunque preferisco tenerlo d’occhio quando ce l’ho vicino.
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E cosa ci faceva quella nel ristorante di mio fratello?
Non mi piace, non mi è mai piaciuta. Con quelle forme e quei modi da troia, sempre attorno a Tears come se ne avesse il diritto. Come se non sapesse che lui è mio, che lo è sempre stato. Se solo lo capisse anche lui…
E invece lui continua ad andare dietro a quella, e ad ignorare me. Continua nella sua ostinazione di volersi dichiarare omofobo. Accetta me perché… beh, io sono io. E accetta Bas e Cal per lo stesso motivo. Anche se nel loro caso più che accettare fa finta di niente e passa oltre. Le scene che non ha fatto quando gli ho detto come stavano le cose tra i due… per fortuna loro non erano lì ad assistere.
Comunque. Lui continua ad andare con quella là, e io continuo a dovermi accontentare di quelli che trovo in giro. Spero di trovare qualcuno carino stasera dopo il lavoro.
Una volta arrivato in casa vado subito in camera mia, ho i miei soliti preparativi da fare.
Lenti a contatto bianche, parrucca magenta sistemata a prova di tiro (mi tocca mettere una parrucca. Io! Ma si può? E’ solo che, tutte le volte che butto lì a Tears l’idea di tingerli sul serio, mi guarda come se volesse trasformarmi in un punchingball) e il “tatuaggio” sotto l’occhio. Finto anche quello, per le stesse ragioni di cui sopra.
Tears non ne vuole sapere di lasciarmi cambiare il mio aspetto. Certo, il tatuaggio lo disegnerei sempre io per non essere troppo riconoscibile, ma i capelli potrebbe almeno concedermeli. Tingerei i miei e poi di giorno li coprirei con una parrucca del mio colore naturale. E invece mi tocca sorbirmi i suoi mugugni tutte le volte che mi vede uscire “conciato così, che sono ridicolo”. Almeno posso rispondergli che in questo modo non sono riconoscibile, quindi posso andare in giro anche di giorno senza dovermi sempre guardare le spalle.
Quando esco dalla camera fuori fa abbastanza buio da poter uscire dalla finestra senza rischiare di essere visto e -soprattutto- riconosciuto. Bas e Cal, seduti al tavolo, mi sorridono e mi dicono “buon lavoro.” Sempre insieme, quei due. Io salto da un tetto all’altro e scompaio nel buio.
Stasera spero proprio di trovare qualcuno carino.
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“Sin è diventato proprio bravo, eh?” dice guardandolo andare via dalla finestra.
Ha lo sguardo un po’ malinconico, probabilmente sta pensando ai tempi in cui quello era il nostro lavoro. A tempo pieno, almeno. Ogni tanto Bas riesce ancora a convincermi ad andare a spiaccicarmi contro qualche muro, solo gli dei sanno perché. No, so perfettamente perché ci riesce. E lo sa anche Bas. Il bastardo. Che in questo momento di sicuro sta pensando ad un periodo particolare, di quando rubare era il nostro lavoro. Lo vedo da come rimane girato a guardare fuori dalla finestra che i suoi pensieri si stanno spostando dal lavoro a lei.
Lei. Il suo nome non viene mai pronunciato in questa casa, ma questo non le impedisce di aleggiare come un velo invisibile tra di noi. E il mio fegato ringrazia.
Mi avvicino a lui, cercando di sviare il corso dei suoi pensieri e abbracciandolo da dietro. “Sì, è proprio il tuo degno erede. Come Tears sarebbe il mio. Bestemmie a parte.”
Lui sorride, e io so di avercela fatta. “Sì. E’ un po’ un peccato che Tears abbia deciso di non continuare sui nostri passi come ha fatto Sin, anche se devo ammettere che con il ristorante se la sta cavando proprio niente male…”
“Un peccato un par di palle, te lo immagini poi al rientro? Tutto rotto e imprecante a tirar bestemmie finché non lo rattoppiamo. Credimi, ha fatto la scelta migliore. E così almeno abbiamo un pasto caldo garantito ogni volta che vogliamo.” Ammicco, e finalmente riesco a farlo ridere.
Lui si volta, e con le mani mi sfila la maglia dai pantaloni. “Beh, quel che conta è che adesso siamo noi due da soli.” dice prima di appoggiare la bocca sull’angolo della mia. Io dovrei dirgli di no, so che dovrei. E’ sempre quel maledetto velo, e il suo tentativo di lasciarselo alle spalle.
Non è veramente perché sono io. So che dovrei dirgli di no, ma non lo faccio. Non l’ho mai fatto, non ci riesco. E così capitolo. Se solo lo ammettesse, e se solo permettesse a me di ammetterlo, sarebbe tutto molto più facile.
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Potrei dirglielo, ma non lo farò. Non posso, non finché c’è lei. Un giorno, magari. Sono anni che dico così, e non lo faccio mai.
Potrei dirglielo che è grazie a lui che non passo tutti i santi giorni a tormentarmi per lei. E’ perché è lui che reagisco così e vado avanti.
Potrei, ma non posso.
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Un altro dignitario. Cielo, a volte invidio davvero mio figlio. Diciassette anni, un hobby da ladruncolo, e nessun pensiero in testa. Avrei voluto essere così spensierata, alla sua età.
Per fortuna quel dignitario era l’ultimo, così io ho il tempo di riposarmi un po’ nelle mie stanze prima di dovermi cambiare e scendere per la cena. Stupida etichetta, vorrei mi spiegassero il senso di cambiarmi quattro volte al giorno. E’ così da quando avevo l’età di Zen.
Quando avevo l’età di Zen… Non era proprio alla sua età, ero un po’ più grande, e a ripensarci mi viene ancora da piangere. Quello stupido, pomposo, maledetto… Ha osato portarmi via una delle persone più preziose che avessi, dopo Zendaru. In una caccia all’uomo che per una stupida regola non ho potuto fermare, ha osato uccidere l’uomo di cui mi ero innamorata. E ha osato ridere mentre me lo diceva.
Nakiri e Samuel si sono davvero meritati la promozione che ho dato loro, e il posto in cui sono adesso. Se lo sono meritati, perché hanno liberato questo mondo da un essere che per stupidità e ignobiltà non meritava di esistere. Credeva di poter trattare me e mio figlio come più gli aggradava, pensando che fossimo indifesi alla sua mercé. Quanto si sbagliava. Non ho mai chiesto a Nakiri come si sono liberati di quell’incapace, e lui non me l’ha mai detto.
L’importante è che sia stato fatto. E da allora io e Zen possiamo vivere tranquilli la nostra vita.
Beh, per quanto tranquilla possa essere la nostra vita.
Spero solo che quel disastro non vada a ficcarsi in qualche brutto guaio.
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Lui è lì, seduto alla sua scrivania, occhiali sul naso e occhi puntati sui documenti che ha di fronte. “Al tuo reparto sono arrivati i nuovi protocolli?” chiede, come se non lo sapesse.
“Sì, signore.” rispondo sull’attenti. La porta è aperta, e questo vuol dire rigore e rispetto delle regole. Le due palle. Quando Nakiri, alzando gli occhi dai fogli, vede la porta, posa lo sguardo su di me. Io deglutisco e vado a chiuderla.
“E immagino che tu e i tuoi uomini abbiate fatto i deficienti anche questa volta…” continua.
“Eh sai com’è…” replico grattandomi la nuca.
“C’è stato qualche problema con i profughi, ultimamente? O con le antenne?” Questa sembra essere la serata delle domande retoriche.
“No” gli rispondo. “Dei profughi se ne sono occupati senza problemi gli alleati, e le antenne sono state appena controllate, funzionano a pieno regime.”
“Bene, Colonnello. Allora direi che una volta finito il suo turno, lei ha il resto della serata libera.” E mi guarda. Ma fisso, eh. Allora capisco.
Controllo che la porta sia ancora chiusa, mi sporgo un po’ verso Naki e, abbassando un po’ la voce, replico: “Il fatto è che la mia camera d’albergo ha dei problemi con le tubature, al momento.” Balla colossale. Ma lui mi guarda brevemente e mi lancia un mazzo di chiavi.
“Io ho ancora del lavoro da fare, quindi farò tardi.” Recepito, vuole che vada. Faccio il saluto e, con un ghigno, raggiungo la porta. Afferro la maniglia, ma prima di aprirla mi volto e gli faccio l’occhiolino “Allora ti aspetto.” Ed esco.
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Stasera ho deciso di accettare un lavoro. Una cosina piccola, niente di che, devo solo recuperare un oggettino che una tizia con poco cervello ha dato ad un tipo meno che raccomandabile.
Dovrei anche riuscire a tornare a casa prima che mia madre passi in camera mia per il “controllo serale”. Insomma, ho già diciassette anni, non ho bisogno che mia madre mi controlli. Cioè, sì, adesso sono anche in giro a rubacchiare, ma questo non conta. E’ solo un hobby, mica lo faccio per qualche motivo strano. Non lo faccio neanche poi così spesso. E’ solo che a palazzo non è che io abbia chissà che grandi impegni e, con mia madre occupata a regnare e la servitù che fa tutto il resto, io mi annoio.
Rido pensando alla prima volta che mi ha scoperto. Era anche la prima volta che rubavo qualcosa, a dire il vero. Era la spilla di uno dei ministri del regno, un tizio pomposo e antipatico. Io avrò avuto sì e no cinque anni, e lui aveva fatto un qualche commento su di me che mi aveva dato fastidio; così, per ripicca, gli rubai la spilla senza che lui se ne accorgesse.
Quando finalmente si rese conto di non averla più, divenne tutto paonazzo e si mise a urlare mentre io, dietro il trono, me la ridevo come un matto. La sera, poco prima di mettermi a dormire, mia madre si accorse della spilla che avevo lasciato sul tavolo nella mia camera, e mi guardò con due occhi sgranati, prima di prenderla, scuotere il capo e uscire. Poco prima di chiudere la porta, mi sembra anche di averla sentita dire qualcosa come “allora è nei geni”.
Chissà cos’avrà voluto dire…
Cammino tranquillo per una delle strade principali, con indosso il mantello e il cappuccio calato sul volto, prima di infilarmi in una stradina secondaria poco frequentata e mettermi a correre. Con il movimento il cappuccio cade all’indietro lasciandomi i capelli scoperti, ma non è un gran problema dato che la strada al momento è deserta se non per un tizio alto con i capelli castano-rossicci. Non l’ho mai visto, deve essere qualcuno di fuori.
Lo supero, ma la mia corsa viene fermata dalla sua mano che afferra un lembo del mio mantello e per poco non mi strozza.
“Bas, ma che ci fai qui? Potevi dirmelo,” mi dice prima che io mi volti.
Quando lo faccio, lui si mette a fissarmi con gli occhi fuori dalle orbite. Che tipo strano. “Qualcosa non va?” Gli chiedo. Lui sembra riprendersi e sbatte in fretta le palpebre.
“No, niente. Scusa, ti avevo preso per qualcun altro.”
“Per chi?” gli chiedo, curioso. Non mi capita spesso di incontrare gente da fuori. Gente normale, intendo. Di dignitari, messaggeri e simili ne incontro anche troppi a palazzo. Ma come questo qui, mai. E’ divertente.
“Nessuno, nessuno, non importa.” Scuote il capo, continuando però a fissarmi e a tenermi il mantello. “Senti, tu sei di queste parti? O vieni da fuori?” Chiede poi, guardando finalmente da un’altra parte.
Io inarco un sopracciglio. “No, sono di qui. Perché?” Gli rispondo. E lo vedo mentre, sempre senza guardarmi, sgrana lievemente gli occhi e borbotta qualcosa che non riesco a sentire bene ma che assomiglia tanto ad una parolaccia.
“Niente, niente. Semplice curiosità.” Sembra accorgersi solo in quel momento che mi sta ancora tenendo per il mantello, perché lo lascia andare.
Io lo guardo incuriosito per un attimo, prima di ricordarmi che ho un impegno. Gli dico “Ci si vede in giro, eh.” prima di voltarmi e ricominciare a correre. Chissà chi era.
*********
“Omminchia.” sussurro.
Quel ragazzo. L’età, il fatto che sia di Samirien, e poi l’aspetto, così simile anche se un po’ sbiadito… Non ci vuole certo un genio per fare quattro calcoli e arrivare alla giusta conclusione.
“Occazzo.”
Bas non lo verrà mai a sapere.
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