Qualche Tempo dopo il compleanno di Zen, in un parco
“I profughi son sempre più sfrontati” penso guardando Nadja, mentre entrambi ci tuffiamo dietro il muretto della pista di pattinaggio. Proiettili cadono come grandine nell’aria, nella porzione di spazio che occupavamo un secondo fa. Lei mi risponde solo con un movimento delle sopracciglia e con gli occhi sgranati.
Prendo il laptop per individuare la posizione dei profughi senza espormi, ma si è spaccato lo schermo nell’urto. Smadonno.
“Resta giù.” dico a Nadja, mettendomi carponi per guardare oltre il muro.
Quel che vedo conferma il mio giudizio: i profughi son diventati sempre più sfrontati. Adesso attaccano anche in pieno giorno e fra la folla.
Vedo i due che ci hanno puntato attraversare il prato, avvicinandosi ad armi spianate. L’uomo è uno spilungone biondo di circa vent’anni. Ha i lineamenti regolari e i capelli biondi di un principe tedesco, ma il sorriso truce e la glock che ha in mano mi dicono che, no, non si comporterà da gentleman con noi. Accanto a lui c’è una femmina di drow, armata di uzi. Centro la drow al braccio che regge l’arma, poi mi si inceppa la glock.
Lo smilzo biondo sogghigna, poi fa partire un colpo nella mia direzione. Io mi ributto a terra, cadendo su Nadja. La sento espellere rumorosamente il fiato per il colpo, ma non si lamenta. Rotolo via da lei, poi la prendo per mano e la aiuto sollevarsi. “Dove andiamo? ” mi chiede concitata, i dreadlocks che svolazzano mentre a schiena china corriamo lungo il muretto della pista di pattinaggio. “Alla macchina di Tears, ha sempre delle armi in più nel bagagliaio.” le rispondo; non ho ancora terminato la frase che sento la mano di Nadja irrigidirsi sotto la mia e fare resistenza. “Ma che cav…?” esclamo, girandomi verso di lei per capire cosa succede e vedo che guarda oltre la pista di pattinaggio, verso l’area giochi per i bambini. Seguo il suo sguardo e la vedo: è una bambina di tre o quattro anni, con la frangetta bruna e una salopette di jeans con sotto una maglietta gialla. E’ pietrificata in mezzo a questo bailamme di spari che è diventato il suo parco giochi. Ha gli occhi chiusi, strizzati; con una mano regge una bambolina di pezza contro il petto, l’altra la preme contro l’orecchio, come se il suo gesto potesse zittire il rumore degli spari. Accanto a lei, riverso per terra, c’è un uomo. Il davanti della sua camicia si sta tingendo di rosso, deve essersi preso uno dei proiettili destinati a noi.
Nadja scatta verso la bambina. Non faccio neanche in tempo ad aprire bocca per dissuaderla che i miei timori si concretizzano: dietro il muro sbuca lo smilzo che ci inseguiva gridando: “Beccati.” e punta la pistola verso la schiena di Nadja, l’indice già teso sul grilletto, il ghigno più sardonico che mai.
***
Scatto verso la bambina, non posso farne a meno. Il modo in cui strizza la bambola , il modo in cui strizza gli occhi mi fa stringere il cuore. E’ la personificazione stessa della paura fatta bambina. Io mi dimentico di Zen, mi dimentico persino dei nostri inseguitori e corro da lei. Non ho neanche il tempo di fare due metri che appare il nostro inseguitore con la pistola spianata, pronto a spararmi alla schiena. Lo sento gridare e giro appena la testa, senza fermarmi. Accadono due cose: inciampo ed inizio a cadere; contemporaneamente Zendaru salta su come un pupazzo a molla accanto al braccio teso del profugo. Con la coda dell’occhio lo vedo colpire con un suo polso a metà dell’avambraccio avversario mentre con l’altra mano piega verso il basso il polso. Le dita del biondone si aprono e la pistola cade senza sparare un colpo. Senza soluzione di continuità Zendaru colpisce l’avversario ai genitali, per poi colpire la carotide con la mano che controllava il polso quando il biondo si piega in avanti. Il biondo cade svenuto; tocchiamo il suolo in contemporanea.
Un attimo dopo Zen mi strappa da terra di peso, cingendomi per la vita e tenendomi per un braccio. Riprendo l’equilibrio e corriamo verso la bambina.
***
Arriviamo dalla bambina e io scocco un’occhiata a Nadja, poi la lascio andare. Lei si inginocchia all’istante accanto al ferito, mentre io vado verso la bambina. S’è c’è una cosa comoda nella abilità di Nadja è che in situazioni critiche ci si intende senza doversi parlare.
La bambina perde la sua immobilità; barcolla e sviene. La prendo al volo per evitare che si faccia male, poi la adagio per terra. La metto nella posizione che mi ha insegnato Nadja per evitare che soffochi a causa della sua stessa lingua.
La bambina ha il viso incrostato di lacrime e muco e la macchia scura che si allarga in basso sulla salopette mi dice che se l’è fatta addosso, ma per il resto mi sembra illesa, almeno fisicamente.
Aspetto che Nadja mi dica qualcosa riguardo al ferito, intanto riprendo fiato.
Ho il cuore che batte all’impazzata; la paura e l’adrenalina mi si raccolgono come un groppo in gola al pensiero di quanto son stato vicino a perdere Nadja. Quando lo spilungone biondo le ha puntato la pistola l’ho vista morta prima che accadesse. Vedevo già il sangue , i pezzi di carne sparsi per terra, i suoi occhi appannati ed il viso esangue. Ringrazio mentalmente Electra, è grazie ai suoi insegnamenti che quella è rimasta solo una brutta fantasia. Avrei ucciso quel bastardo, ma mi son trattenuto all’ultimo momento solo per Nadja – odia quelli che uccidono-.
***
Lascio la mano di Zendaru e mi inginocchio accanto al ferito. Dalla quantità di sangue che ha perso non credo che ci sia molta speranza, ma provo lo stesso il polso carotideo. Niente battito. Niente respiro.
“Nulla da fare, quest’uomo è morto.” dico a Zen, che si riscuote dai suoi pensieri .
“Allora andiamocene,” risponde caricandosi la bambina in spalla. “Il tizio che ho steso potrebbe rinvenire a momenti “.
***
Mezzora prima
E’ pomeriggio tardi; un pallido sole settembrino, in procinto di tramontare, illumina morbidamente le chiome degli alberi, facendole sfolgorare di giallo, rosso e marrone. Mi godo la scena, seduto su una panchina del parco. La brezza mi scompiglia piacevolmente i capelli mentre lascio vagare lo sguardo di ramo in ramo, di foglia in foglia , poi giù per i viali del parco, sopra la gente che affolla i prati di fronte alla panchina. Penso a Nadja, che tarda ad arrivare dal lavoro. Abbiamo un appuntamento, ma lei è in ritardo di un quarto d’ora.
Mi guardo intorno, prima a destra verso l’uscita del parco, poi a sinistra verso il chiosco dei gelati, con fare corrucciato; l’allegria che mi è propria è scivolata via, sostituita dal fastidio. Non per il ritardo di Nadja: ho percepito qualcosa che stona nell’ambiente circostante ma non riesco a mettere a fuoco cosa. Fatto decisamente frustrante dato che mi son sempre vantato di saper cogliere i particolari più minuti di una stanza o di una strada così, a colpo d’occhio.
Prima di poter capire la causa del mio disagio mi sento chiamare; mi volto e vedo Nadja che cammina verso di me, agitando una mano in segno di saluto. Mi alzo e le vado incontro, sorridendo come un bambino davanti ad un albero di natale.
“Scusa il ritardo”, mi dice Nadia, poggiando una mano sul mio braccio e alzandosi in punta dei piedi per darmi un bacio su una guancia. “Oggi è stata una giornata terribile a lavoro”.
Guardo il bel volto di Nadja, sciupato dalla stanchezza, poi rispondo gaio: “Nessun problema; piuttosto raccontami cosa è successo” ed intanto la prendo a braccetto, accompagnandola verso il chiosco dei gelati.
“Facciamo così,” risponde lei “tu offrimi un gelato ed io ti accontenterò”
“Per lei questo ed alto, mia signora.” Ribatto, gonfiando il petto ed atteggiandomi come un pomposo conte inglese; ciò provoca una risata cristallina da parte sua, a cui lui mi unisco prontamente.
Così , ridendo giocondi sediamo ad un tavolino del chiosco, al quale si avvicina subito una affabile cameriera per chiedere quali siano le ordinazioni.
***
Poco dopo riprendiamo a camminare a braccetto, seguendo il sentiero che costeggia il laghetto del parco.
“Così oggi son arrivati quattro alleati feriti dai profughi”, interloquisco guardando Nadia. “ Non mi sembra molto diverso da una giornata tipo in infermeria.”
“Già”, risponde lei piccata, “ma di solito non c’è il generale Shelv incazzato nero in infermeria, che interroga i pazienti mentre tento di rappezzarli.”
“Uh, il generale in infermeria”, esclamo. “Deve essere successo qualcosa di veramente grosso!”
“Da quanto ho capito quegli alleati non sono stati feriti dai profughi durante una missione di recupero, ma sono stati attaccati mentre erano nella loro zona, ‘in borghese’ per così dire.” risponde Nadia.
“Insomma un po’ per il lavoro, un po’ per lo stress di avere il generale che impazza in ambulatorio, mi sento orribilmente stanca.” continua poi , appoggiando la testa sulla mia spalla “E avrò anche un aspetto orribile.” aggiunge , restando appoggiata alla spalla. Mi fermo e la chiamo per nome; lei mi risponde “sì?” alzandosi a guardarmi negli occhi. Allora le dico “Sei bellissima oggi.” e poi, senza darle tempo di rispondere o muoversi, le do un bacio sulla bocca, lasciandola attonita per un momento.
Poi, mentre Nadja riprende la favella per gridare -indignata- “Zendaru di Samirien.” ad un volume spacca timpani, colgo un movimento con la coda dell’occhio. In quell’istante comprendo cosa mi aveva turbato in precedenza. Faccio appena in tempo a buttarmi a terra, trascinando Nadia con me, che una sventagliata di mitra passa sopra le nostre teste. Se avesse tardato un momento gli uomini della SHIELD avrebbero dovuto raccoglierci da terra con un cucchiaino. Appena tocco il suolo rotolo su un fianco, estraggo la glock e faccio fuoco ripetutamente contro i nostri aggressori. Un drow si accascia, ferito a morte, mentre i suoi due compari si riparano dietro ad un paio di quei blocchi di cemento ondulato che gli amministratori locali chiamano “arredo urbano” e che io, come tanti altri, chiamo “inutile spreco di soldi”. Continuando a sparare, mi alzo e corro insieme a Nadja verso la rimessa dei tandem.
“Là, prendiamo il tandem.” esclamo; “Il tandem?!” chiede stupita Nadja. “La tipa è una drow, a piedi ci raggiunge in un battito di ciglia.” Rispondo saltando su un tandem mezzo scassato e cominciando a pedalare di gran lena. Nel frattempo, mentre anche Nadia inizia a pedalare ed i proiettili a fischiare intorno a noi, mi suona il telefono.
***
Vedo Zen aprire con uno scatto del polso il telefono e portarlo all’orecchio, poi sento un fievole, metallico Tears berciare: “Pivello, molla la tua bella e vieni; abbiamo del lavoro da fare al parco, ci sono dei profughi che dobbiamo sistemare.”.
Zen gli risponde, isterico di paura: “Sono già al parco e quei profughi che dobbiamo sistemare, beh, ci stanno sparando.”.
“COOOOSA?” bercia un ancora più isterico Tears. “Come ti è venuto in mente di attaccarli con Nadja al seguito?”
Zen: “Non li ho attaccati io, son loro che mi hanno sparato per primi.” risponde indignato, poi continua: “Invece di farmi il cazziatone vieni a darmi una mano, o questa sera un drow avrà un paio di bretelle di pelle umana nuove.”
Tears: “ Ok, io sono ad un minuto dall’entrata nord del parco, reggi botta ancora un poco.”
Zen: “Ok muoviti!” E chiude il telefono. Io gli dico: “Mi è venuta un’idea: portiamo il tandem fino al lato ovest del parco e appoggiamolo al muro per far credere di averlo scavalcato, poi torniamo fino all’entrata nord attraverso la macchia di alberi che costeggia il muro .”
Zen annuisce. “Farà perdere un po’ di tempo ai nostri aggressori.” dice mentre costeggiamo la pista di pattinaggio.
***
All’uscita del parco, dopo aver raccolto la bambina
Usciamo dal parco e vediamo la macchina di Tears parcheggiata, con la portiera aperta, al primo crocevia ma di lui non c’è traccia.
Raggiungiamo la macchina; Nadja e la bambina riescono a salire ma io no: da un cono d’ombra al di là della strada spuntano altri tre profughi. Quello in mezzo è un mingherlino con in mano un fucile che mi punta al viso; gli altri due sono un tizio basso e tozzo con un coltello e una specie di montagna con un bastone in mano.
Il tizio col fucile mi intima “fermo”, o almeno ci prova: non è ancora arrivato alla “e” che io gli sono arrivato con un calcio laterale sul mento. Il tizio cade, il fucile spara ma il proiettile vola alto. Io mi ritrovo in mezzo agli altri due, ancora impietriti per la sorpresa. Appena poggio il piede a terra il traccagnotto col coltello si riscuote e mi tira un affondo: non faccio in tempo ad uscire dalla linea di attacco spostandomi , così ruoto su me stesso per entrare nella sua guardia e faccio passare il coltello dietro la mia schiena, controllandolo con la mano e colpendo l’avversario con un pugno alla base del naso. Il mastodonte col bastone si fa avanti menando un fendente, io schivo, anche lui tenta un affondo, anche lui è spacciato: esco dalla linea di attacco e afferro il bastone. Facendo leva con quello lo proietto a terra, poi lo colpisco tre volte in successione. La prima vola alla scapola, la seconda sul fianco in corrispondenza delle costole e, quando si rannicchia mostrando il lato del collo, di punta alla carotide. Il misero sviene.
“Bravo pivello,” sento dire dietro di me. “Alla fine qualcosa l’hai imparato da Electra.”; mi giro e vedo Tears spuntare dietro al primo angolo, tutto coperto di sangue, che si accende una sigaretta con la punta, incandescente, della SPAS 12.
“Ma dove cazzo eri finito?” Gli sbraito contro. Lui alza un sopracciglio e risponde: “ dietro a dei profughi che inseguivano della gente; pensavo seguissero voi.”.
Mi appoggio alla macchina e chiudo gli occhi, poi chiedo: “ La squadra di pulizia fra quanto sarà qua?”
Mi risponde Nadja invece che Tears: “Credo che questi siano loro.” mi dice, scuotendo la testa in direzione delle sirene che si sentiamo avvicinarsi, per ora a malapena udibili.
Regge ancora fra le braccia la bambina, che nel frattempo è rinvenuta ma si è addormentata; le troppe emozioni l’anno spossata. Tears la vede, sgrana gli occhi ed esclama: “E questa dove l’avete raccolta?” con un tono di voce che lo possono sentire anche a Canicattì.
“Non urlare, trogolone, che svegli la bambina.” risponde piccata Nadja guardandolo in cagnesco.
Io intervengo. “L’abbiamo trovata vicino al padre morto, con i proiettili che le fischiavano attorno. Cosa dovevamo fare secondo te? Lasciarla lì, piccola com’è?”
“Seh, seh,“ gracchia lui. ”Il solito buonista, sempre a caricarti di problemi non tuoi e a farti scrupoli non richiesti. A proposito, ti sei accertato di averli seccati tutti i tuoi inseguitori?”
“No: un drow l’ho ucciso, ma la sua compagna è solo ferita e l’umano che era con loro è solo svenuto.”
Tears sparisce dentro al parco, borbottando qualcosa come: “Mai mandare un bambino a fare il lavoro di un uomo”.
***
Lascio, un po’ a malincuore, la bambina nelle mani di un poliziotto in divisa, il quale la avvolge in una coperta. E’ uno dei nostri, infiltrato nella milizia di questo mondo per aiutare le squadre di pulizia. Farà in modo che la bambina torni alla madre, la quale molto probabilmente non sa ancora che suo marito è morto.
Rimuginando su tutto questo mi avvicino a Tears e Zen e con voce sepolcrale chiedo: ”Mi riportate a casa? Son troppo sfinita per tornare in pullman.”. Veramente mi sento come una vecchietta di novanta anni invece che poco meno che ventenne. Tears mi guarda e fa: “Monta in macchina, tanto sei di strada.” ruvido come carta vetrata. Mi concedo un sorriso: so che per portarmi a casa spenderà in benzina l’equivalente di tre confezioni da sei della sua amata birra; se veramente fosse così ruvido e menefreghista come vuole dare a vedere mi avrebbe lasciato a piedi.
***
Davanti a casa di Nadja
Zen e Nadja stanno parlando, uno di fronte all’altra; quest’ultima tiene le mani di Zen fra le sue. Tears aspetta in macchina, impaziente.
“Zen, volevo ringraziarti. Ti devo la vita. Ma soprattutto volevo chiederti scusa: quando ho visto quella bambina oggi non ho più ragionato, senza pensare che non ero sola, che non era solo la mia vita quella che mettevo in pericolo”.
“Ho provato molta paura per te, Nadja.” risponde Zen, commosso.
“L’ho sentito.” esita. “ … Ho sentito anche che avresti potuto uccidere quell’uomo oggi.”
“Ho provato molta paura per te oggi.” ripete Zen, in tono più duro. Ogni traccia di gaiezza infantile sparita, sul viso serio si intravede l’uomo che sarà un giorno.
“Ma alla fine non l’hai fatto, questo ti rende diverso.” dice Nadja accostandosi di più a Zen; in quel mentre Tears bercia: “Allora piccioncini, ci muoviamo?”
I due ridacchiano imbarazzati, poi Zen borbotta: “Gli sparerei quando fa così.”
“Oh non so.“ dice Nadja. “Forse sei ancora fortunato che sia così e non peggio.”
“Peggio?” dice Zen. “Sì, prendi ad esempio la sua fissa dei nomi.” risponde lei, “Se non fosse che non chiama nessuno per nome da oggi potrebbe chiamarti Zen il Guerriero.” e fa finta di colpirlo al petto con la mossa delle sette stelle di Okuto, poi lo afferra per i baveri del giubbotto e lo bacia sulla bocca.
Poi si gira ed entra in casa.
E’ uno Zen ancora inebetito e più confuso che mai quello che sale in macchina.
Tears ingrana la marcia con uno dei suoi soliti e incomprensibili borbottii.
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